Cotonificio C. – P. N.
Giugno 2021.
Premessa
Questo luogo era nella mia lista dei desideri da parecchi anni. Lungo una strada che ho percorso decine di volte e non troppo lontano da casa, ho sempre rimandato un approfondimento, considerando la relativa vicinanza del luogo. Questo procrastinare è stato punito quando, un anno fa, passando lungo la succitata strada notai una vera e propria montagna di mattoni dove ricordavo ci fosse un grande edificio, parte del complesso abbandonato. Infatti, verificando, scoprii che erano partiti i lavori di demolizione e che una parte dell’area del Cotonificio ormai non c’era più. Ho quindi atteso la fine delle restrizioni della pandemia per poter finalmente andare ad esplorare ciò che rimaneva prima che fosse del tutto troppo tardi. E perché non approfittarne per conoscere finalmente di persona un altro membro di Lost Italy? In questo caso si tratta di Mathieu Delarue.
Storia
Il Cotonificio nacque alla fine del XIX secolo e diede lavoro fino a duemila operai circa nel suo momento di massima espansione. Portò quindi lavoro e abitanti nel piccolo paese che lo ospita, furono quindi costruiti anche un convitto, delle abitazioni per i lavoratori e un asilo per i loro figli. Nel corso del XX secolo la crisi del reparto tessile italiano colpì anche questo storico Cotonificio, riducendo via via le produzioni, per chiudere definitivamente nei primi anni duemila.
Esplorazione
Eccomi arrivato al punto d’incontro. I miei compagni di esplorazione (MD e un suo amico) sono un po’ in ritardo a causa del traffico, quindi ne approfitto per fare un giro di ricognizione alla ricerca di un punto d’ingresso praticabile. Il luogo è ben difeso da un alto muro, ma escogito un’idea che con un po’ di fortuna potrebbe funzionare e portarci dentro con relativa semplicità. Suona il telefono, sono arrivati, gli vado incontro e facciamo conoscenza. Torniamo sui miei passi e intanto illustro il piano ai miei compagni che avvallano la mia idea. Tentiamo e il fato ci sorride, siamo nell’area abbandonata e il cielo si fa sempre più nuvolo, ottimo per la luce delle fotografie. Dopo essere passati sotto i tralicci abbandonati dell’alta tensione, in una stazione di derivazione dove l’impianto prendeva la corrente dalla linea principale, ci troviamo in uno spiazzo al cospetto di due grandi serbatoi di combustibile; a sinistra la cabina elettrica di trasformazione e a destra il convitto operaio.
Iniziamo la visita dalla cabina, che ospita un grosso trasformatore e una graziosa scala che porta in cima alla costruzione, dove una volta i cavi uscivano dalle pareti per raggiungere gli stabilimenti sottostanti. Tornati all’esterno ci accorgiamo che pioviggina, quindi decidiamo di recarci al chiuso, per visitare il convitto.
Al chiuso fino ad un certo punto, in quanto subito dobbiamo scavalcare le macerie delle scale, crollate a causa delle infiltrazioni. Il tetto è infatti crollato in più punti, non lasciando scampo ai pavimenti di legno sottostanti, marciti e collassati sotto il peso dell’acqua e del tempo. Ci addentriamo, le stanze al piano terra hanno le finestre per lo più chiuse quindi estraggo ed accendo la torcia elettrica per vedere dove mettere i piedi. Ci troviamo in una stanza con bellissime finestre ad arco che danno sul giardino antistante, con le piante rampicanti che si sono fatte strada fino all’interno. La luce è tenue e ideale per le foto. Fortunatamente ci sono altre due rampe di scale ancora più o meno sane che ci permettono di salire ai piani superiori. Il primo e il secondo piano sono quasi identici, con grandi stanzoni forse usati come dormitorio (abbiamo trovato una testiera di un letto e un armadio) caratterizzati da colonnine in ghisa a sorreggere la soletta del piano soprastante e un grande bagno comune con lavandini e lavabi per lavarsi i piedi.
All’ultimo piano, il sottotetto in pratica, si trovano diversi armadietti degli operai, piuttosto datati: sono in legno, con antine composte da una rete metallica e da una tendina di cotone bianco a occultare il contenuto. In uno di questi armadietti ho trovato una bottiglietta di vetro di olio di fegato di merluzzo “purissimo” e un’altra boccetta proveniente da una farmacia locale con l’etichetta scritta a mano. Non mi aspettavo di trovare degli oggetti così vecchi. Il convitto sembra abbandonato da molti più anni rispetto al resto del complesso. Decido di mangiare uno snack su un terrazzino prima di ridiscendere a cercare i miei compagni.
Terminata la visita del convitto decidiamo di raggiungere i capannoni della produzione, ma al contrario di quello che pensavamo, la cosa non era affatto semplice. Il problema è che, essendo il complesso insediato sul pendio di un monte, i capannoni risultavano più in basso rispetto a dove ci trovavamo e per di più sono divisi da un canale artificiale colmo d’acqua. Abbiamo cercato un punto per poter scendere ma senza successo, anche schivando lo sguardo della telecamera piazzata di fronte alla chiusa dove vengono raccolti i detriti trasportati dall’acqua prima di infilarsi nella condotta forzata. Dopo diversi tentativi, in cui ci siamo anche calati nei ruderi di quello che pareva essere un locale ospitante il raccordo dei fumi di scarico delle caldaie verso la ciminiera soprastante, abbiamo finalmente trovato la via che ci ha consentito di accedere alla zona produttiva. Tramite un comodo ponticello attraversiamo il canale e con una certa facilità ci introduciamo nei capannoni.
I locali sono piuttosto grandi, capannoni dalla bella architettura con vetrate e colonnine di ghisa. Non si vedono macchinari, ma disseminati qua e là ci sono ancora rotoli di tessuto, bancali e cartelli per la sicurezza sul lavoro vecchi di almeno settanta anni. Una scala conduce al piano inferiore dove ci sono degli armadietti metallici (come i numerosi che incontreremo più tardi negli spogliatoi), materiali vari abbandonati in giro, grandi vetrate.
Raggiungiamo la zona delle caldaie, dove purtroppo queste ultime sono state smontate, ma dove rimangono le tubazioni e gli armadietti colmi di ricambi. Ci sono anche gli strumenti che ne registravano il funzionamento e le tabelle orarie delle accensioni. Troviamo un vecchio adesivo con la “preghiera dell’autista”, uno di quelli che si attaccavano sul cruscotto delle auto negli anni ’70, infatti su questo è raffigurata una Fiat 127. Entriamo in un altro complesso di capannoni dove ci sono dei rimasugli di macchinari relativamente più recenti, diverse officine di manutenzione e un grande magazzino ricambi. I particolari e i dettagli da immortalare sono tantissimi, l’ora di pranzo è già arrivata e mi metto a mangiare il mio pranzo in piedi mentre cammino per i locali guardandomi intorno.
Oltre alle officine e al grande capannone dal tetto semi crollato, troviamo una sala adibita a luogo di ritrovo dei lavoratori, usato forse per riunioni sindacali o qualcosa del genere. In questo locale, con soffitto a volte e grandi finestre ad arco, ci sono infatti diverse sedie, un amplificatore con microfono e casse acustiche. Su una delle pareti ci sono due tubi del riscaldamento con due “Omega” sovrapposti.
Usciamo anche da questi capannoni e ne raggiungiamo altri, attraversando il locale dei pompieri, contenente due carretti anti-incendio e molti estintori. Qui vengo attirato da un rumore continuo; due lavandini con quattro rubinetti ne hanno uno… aperto, con l’acqua che scorre chissà da quanto tempo. Lo chiudo per evitare ulteriore spreco e un eventuale allagamento. L’alto soffitto presenta grandi vetrate; nel frattempo è uscito il sole e la luce si è fatta molto più dura e anche il caldo inizia a farsi sentire all’interno di questi locali chiusi. Un lungo corridoio presenta diverse porte che portano a diversi spogliatoi, maschili e femminili. Qui dentro troviamo decine e decine di armadietti metallici, identificati con numeri dipinti a stencil in stile militare. In alcuni troviamo ancora delle tute da lavoro, giacche, pantaloni, adesivi incollati agli sportelli e un calendario del sindacato che ci ricorda l’ultimo anno di lavoro: 2004.
A sorpresa troviamo anche uno sportello bancario interno all’azienda, con scrivanie e il bancone con vetro tipico degli sportelli bancari. Questo ci fa capire la quantità di lavoratori che il cotonificio impiegava nei periodi di massima espansione. Dal lato opposto del grande edificio che ospita gli spogliatoi c’è la parte produttiva, dove finalmente troviamo ancora dei macchinari per la lavorazione dei tessili. La protagonista è un’enorme macchina ancora caricata con dei filati, con tre cappe aspiranti e pannelli di comando. Le cappe, le tubazioni e il soffitto sopra questo macchinario sono ricoperti da una lanuggine grigia che ci fa immaginare che gli operai respirassero a lungo parecchie fibre tessili fluttuanti nell’aria. Anche qui sono disseminati tessuti su bancali o avvolti sulle bobine; casse metalliche, una bilancia, un muletto e altre attrezzature abbandonate.
Abbiamo terminato l’esplorazione, ci soffermiamo ancora qualche minuto per delle foto negli spogliatoi, agli armadietti e ai muri scrostati dall’umidità. Usciamo dai capannoni, camminiamo sul viale nord-sud ripercorrendo la strada a ritroso e qui, di fianco ad un tombino di scarico, altra acqua sgorga dall’asfalto, formando una grande pozzanghera. Rientriamo nei capannoni a monte e torniamo al ponticello, riattraversiamo il convitto fino a ritrovarci al cospetto dei tralicci elettrici della centrale di smistamento. Purtroppo la luce e il cielo non sono più quelli cupi della mattina ma non posso fare a meno di fotografare lo stesso tralicci, isolatori e cavi elettrici, prima di tornare, soddisfatto, nel mondo civile.
Conclusioni
Sicuramente una bella giornata, una ricca esplorazione ed ottimi compagni! Un luogo da anni nella mia lista e che ho ammirato decine di volte solo dall’esterno, che non ha deluso le aspettative! Peccato esserci persi gli edifici demoliti, ma siamo riusciti a visitare la parte più antica di un luogo storico che purtroppo, temo presto, non esisterà più; come molti altri, volerà via… They Fly Away.
Le foto qui presenti risalgono a Giugno 2021.