Ditte V. e V.
Novembre 2018.
Premessa
Ogni tanto mi piace spulciare le vecchie schede del database di Lost Italy ed è così che nel 2018 nacque l’idea per questa esplorazione. Andai a controllare questa azienda che all’epoca era abbandonata solo in parte e scoprii con piacere che l’abbandono si era completato, così non restava che andare a controllare di persona la situazione.
Storia
Si tratta di un grande stabilimento che produceva salumi, una di quelle grandi aziende che ha dominato la scena nazionale per anni e che poi dopo il passaggio di proprietà nelle mani sbagliate è fallita, venendo assorbita da altri grandi gruppi industriali del settore. Questa azienda aveva anche un dipartimento per la ricerca e lo sviluppo di medicinali derivanti anche dalla loro materia prima per eccellenza… i suini.
Esplorazione
Io e G. (lo stesso che mi aveva accompagnato nell’esplorazione dell’Ospedale G. S. ) ci troviamo la mattina presto all’esterno della ditta, quando la luce è ancora poca. Le notizie riguardo l’accesso avevano circa 9 anni quindi non sapevamo cosa aspettarci. Inizialmente abbiamo cercato proprio quel punto di accesso usato nel 2009 ma, complice il buio del mattino, non l’abbiamo trovato. Dopo aver praticamente circumnavigato tutta l’area e valutato dei punti purtroppo non fattibili per motivi di altezze, torniamo sui nostri passi e incredibilmente troviamo il passaggio cercato in precedenza! Scendiamo un piccolo pendio e vediamo il casotto della portineria V. con la timbratrice dei cartellini. Purtroppo il casotto non è collegato ad altri fabbricati e non ci si passa attraverso. Quindi, seguiamo la balaustra parallela alla strada, facendoci largo tra rami, felci e piante infestanti (per fortuna niente rovi) per una trentina di metri, fino a dove la balaustra non incontra una costruzione. Qui dobbiamo scavalcare la balaustra e calarci al livello sottostante (un paio di metri più in basso). Per fortuna un alberello cresciuto proprio lì consente di aggrapparsi e di calarsi stile pertica. Sporchi, bagnati (pioveva) siamo finalmente dentro! Alla fine abbiamo perso quasi un’ora ma in confronto all’eventualità di dover rinunciare, mi sentivo felice ed entusiasta per essere finalmente riusciti a penetrare nell’area. Una volta dentro abbiamo iniziato a renderci conto delle dimensioni del posto, davvero enorme. Piovigginava ancora, abbiamo fatto una veloce ricognizione, vedendo i molti capannoni vuoti, l’escavatore parcheggiato e la spianata che prima ospitava il capannone basso, ora demolito. Decidiamo di iniziare a esplorare quello che fu battezzato “palazzo dello strutto” che ormai è più che altro “distrutto” (pessima battuta). Saliamo le scale fino al tetto; non stiamo troppo sulla terrazza perché siamo molto in vista; il panorama sulla fabbrica è notevole. Iniziamo la discesa, un piano alla volta. Gli impianti sono stati tutti rimossi; rimangono poche cose, come un carretto a 3 ruote, una strana specie di pressa e materiale vario sparso sul pavimento. L’architettura è però ancora eccezionale, con le finestre oblique alte e strette e le vecchie lampade ancora penzolanti dai soffitti.



Completiamo la discesa scattando qualche foto e ci dirigiamo verso il palazzo giallo basso. Questo edificio è conciato ancora peggio, completamente vuoto e cannibalizzato, per giunta con infiltrazioni d’acqua dal tetto molto preoccupanti. Sui pavimenti del primo piano ci sono laghi d’acqua, alimentati da cascatelle provenienti dal soffitto. Non ci inoltriamo, dato che tutti i locali sono vuoti, distrutti, allagati e probabilmente pericolanti. Passiamo al grande palazzo della V., quello che dovrebbe prometterci laboratori chimici e gabbie per animali. Inizialmente ci troviamo un po’ spaesati e delusi dal piano terra, temendo che avessero murato le scale per accedere ai piani superiori. Invece, muovendoci nella semi-oscurità, troviamo alla fine le scale. Gli ambienti sono cupi, la luce della giornata piovosa non è molta; alcuni lucernari però illuminano lievemente corridoi e bagni dalle piastrelle azzurre che ci regalano delle atmosfere magiche. Purtroppo molte pareti sono imbrattate da scritte idiote fatte con vernice spray e compromettono molto la scena fotografica. Ci sono delle balconate, dei corridoi esterni che fanno sembrare il palazzo quasi una casa di ringhiera o uno di quei motel americani che si vedono nei film. Cascatelle d’acqua, pareti verdi per il muschio e il rumore della pioggia mi stregano per un paio di minuti. Raggiungiamo degli uffici dove sulle pareti si trovano ancora parti della boiserie e moquette beige, proiettandoci direttamente negli anni 50/60. Quindi troviamo quel che resta dei laboratori, con banconi piastrellati, cappe e qualche cassetto etichettato “pipette”, “termometri”, ecc. Purtroppo le gabbie non le abbiamo trovate. In compenso, stando in tema di animali, il lato Ovest del palazzo è stato colonizzato da decine di piccioni che hanno ricoperto stanze e corridoi di guano. È l’ala più disastrata del palazzo e anche la più vuota. Torniamo al livello del suolo non senza qualche difficoltà nel ritrovare il percorso fatto in precedenza. Il palazzo è grande e i corridoi al buio nascondono un po’ le scale alla vista.




Torniamo alla luce naturale, ha temporaneamente smesso di piovere e quindi ne approfitto per fare qualche foto esterna al palazzo appena visitato e agli altri edifici che ci circondano. Puntiamo ai fabbricati da cui spicca l’altissima ciminiera in mattoni rossi e gli altri due comignoli. Entriamo e attraversiamo un paio di capannoni vuoti, poi, finalmente arriviamo nella sala caldaie. Un alto fabbricato ospita la base della ciminiera in mattoni, che fuoriesce da un buco sul tetto. E tre immense caldaie Pelucchi. Le caldaie sono altissime, imponenti, fasciate da tubi di rame, passerelle e impreziosite da numerosi manometri di varie dimensioni. Sul tetto, dei lucernari ancora intatti fanno filtrare una luce bellissima e morbida che accarezza questi tre giganti addormentati. Ci dividiamo per immortalare quanto più ci è possibile e per ammirare in silenzio questi enormi capolavori della tecnica, accompagnati solo dal rumore della pioggia, che ora si fa sempre più tamburellante. Di fronte alle tre caldaie c’è ancora un banco da lavoro con pezzi di ricambio, un lavello e, separato solo da una piccolissima paratia laterale, un pisciatoio a muro. Diciamo che la privacy non era proprio una priorità e che di certo non giravano donne in questo reparto. Una stretta scala a chiocciola metallica conduce in uno stanzino minuscolo con pareti a vetri. Probabilmente era dove il custode dei tre bestioni sbuffanti poteva rilassarsi un attimo, mantenendo comunque sotto controllo le caldaie. C’è una sedia imbottita, ovviamente sporca e umida per la pioggia; un po’ per riposarmi un attimo, un po’ per godermi quell’angolo di intimità fermo nel tempo, mi ci metto comodo con somma soddisfazione!



Usciamo dal locale caldaie e ci avviamo finalmente verso il sottopasso che ci condurrà alla parte della fabbrica abbandonata più di recente. Il sottopasso è una pozzanghera gigantesca, ma per fortuna camminando sul bordo riusciamo a passare senza bagnarci i piedi. La prima impressione è quella di entrare in una città, una città bombardata forse. Infatti anche qui qualche piccola demolizione è stata operata, in qualche caso probabilmente per recuperare i macchinari più grossi dallo stabilimento. Ci infiliamo in un fabbricato e notiamo che anche qui quasi tutto è stato svuotato (lo stabilimento si è trasferito, quindi i macchinari sono stati portati via scrupolosamente). Ci sono grandi buchi nel soffitto e l’acqua che cade dai tetti dei palazzi adiacenti batte ritmicamente sulle lamiere a terra, generando un suono metallico e martellante. Da un grande magazzino oltrepassiamo una porta che dà su una scala; una scala molto alta, dal basso contiamo 6 o 7 piani. Iniziamo la salita e visitiamo i piani; ognuno conta decine di celle frigorifere, stanze per il decongelamento della carne, stanze per l’essicamento, stanze per l’affumicatura. Sono tutte piuttosto grandi, ci si può fare un’idea di quanto massiva potesse essere la produzione dello stabilimento. Tutte le celle sono buie e hanno pareti coibentate molto spesse. In mente mi si materializzano immagini di un possibile film horror, dove un pazzo maniaco rinchiude gli ignari visitatori del salumificio in queste celle per poi farli a pezzi e mangiarli. Con quelle pareti spesse e la distanza dal mondo “civile”, nessuno sentirebbe niente. Tornando alla realtà, saliamo un’altra rampa di scale e arriviamo ad un piano dove persiste ancora, dopo anni, un gradevole profumo di affumicato, forse di pancetta! Ai muri ci sono ancora appese le regole igieniche da seguire per i lavoratori, molto ferree; doveva essere tutto lindo e disinfettato all’epoca. Ora invece numerosi piccioni dimorano nei corridoi, seminando guano in abbondanza. Terminata la salita non possiamo non ammirare il panorama che si gode da quell’altezza, poi scendiamo di nuovo al piano terra, che in realtà è sotto al livello della strada circostante.



Attraversiamo enormi stanze, perlopiù vuote. Alcune hanno sul soffitto dei grandi aeratori/termoventilatori con dei teli tubolari che si potevano allungare lungo dei cavi metallici paralleli al soffitto. Forse un sistema per incanalare l’aria (calda) e farla scendere dove desiderato? Chissà. Saliamo e scendiamo scale, è un labirinto. Passiamo per un corridoio finestrato che si affaccia sul cortile interno, da cui si gode di un’ottima visuale sugli altri edifici dismessi dell’enorme stabilimento. Di magazzino in magazzino arriviamo all’edificio principale, più vecchio, che dovrebbe ospitare gli uffici. Entriamo da una porta e ci troviamo in un corridoio semibuio. Ci dirigiamo verso una piccola reception e alla guardiola del custode, siamo proprio dietro uno degli accessi principali dell’azienda. Usciamo e ci ritroviamo di nuovo nel cortile, in corrispondenza dell’ingresso carrabile dove un tempo uscivano camion e camion carichi di carne e di salumi diretti ai punti vendita. Un edificio dalla facciata deliziosamente curva presenta una porta aperta; entriamo e troviamo una graziosa scala, poi una porta a vetri. Si apre. Entriamo in una stanza che da un lato sembra essere un archivio, con scaffali smontati e non, scrivanie, un pannello con fotografie che illustrano tutte le fasi produttive dei salumi, dall’allevamento dei suini al confezionamento, e un pannello con la storia dell’azienda, rappresentata da 6 slide con testi e nostalgiche foto anni ’70/’80. Ci sono anche un vecchio computer con doppio drive da 5,25″, una stampante ad aghi e alcune bobine magnetiche IBM. Troviamo anche un raccoglitore che contiene le schede dei dipendenti, con foto e tutti i loro dati personali. Forse il ritrovamento più bello dell’intera giornata, insieme al locale caldaie. All’esterno delle finestre ci sono dei tendoni rosso scuro per il sole, che ormai penzolano stancamente, logori e inzuppati. Sull’altro lato della stanza ci sono degli armadietti, una sorta di spogliatoio/sala attesa. Sopra alla porta c’è l’orologio personalizzato con il logo del salumificio, fermo da chissà quanto.




Usciamo dall’ufficio e torniamo indietro, oltre la guardiola e alla piccola reception: qui troviamo un corridoio su cui si affacciano diversi uffici. Quelli che danno sull’interno dello stabilimento sono quasi tutti al buio, mentre quelli che si affacciano sulla strada son ben illuminati dalle finestre (i vetri per fortuna non sono trasparenti, visto che siamo al piano strada). Ma il pezzo forte è poco più avanti, ovvero l’ingresso di rappresentanza della ditta. Siamo dietro al portone pedonale, l’ingresso dei dirigenti, dove c’è un atrio dalle pareti rivestite di marmo marrone, ascensore e scalinata dalla ringhiera personalizzata. Per G. è quasi ora di andare, non senza aver immortalato la bellissima scala. Apre il cavalletto, prepara tutto, scatta la foto quando all’improvviso sentiamo un rumore arrivare dall’interno dello stabilimento. Un rumore continuo, sembra il rumore di un compressore d’aria. Ci allarmiamo e subito rimettiamo in spalla zaini e attrezzatura. Il mio primo pensiero è che fossero entrati degli operai e avessero dato corrente a qualche attrezzatura da cantiere. Non voglio rimanere da solo nella fabbrica senza sapere cos’è. Andiamo quindi verso la fonte del rumore. Proviene dal magazzino retrostante gli uffici bui. Ci avviciniamo e con stupore ci rendiamo conto che il rumore è prodotto dal motore di un condizionatore d’aria che si è acceso! Siamo stati noi ad attivarlo in qualche modo? Ma soprattutto… come fa ad esserci la corrente? Quest’ultimo dubbio ce lo porteremo dietro per molto tempo, credo… Comunque saluto G. che sguscia (termine proprio azzeccato) fuori dalla fabbrica e ritorno nella stanza in cui c’è il condizionatore incriminato. Provo a toccare la manopola che comanda la ventola ma non succede nulla… sembra essere scollegata. Armato di torcia elettrica scorgo i tubi di rame e il cavo della corrente che arrivano dalla parete e che quindi vanno al motore al di là della finestra; li seguo e.… finiscono dentro al pavimento, quindi non capisco proprio da dove arrivi la corrente al motore. Cerco nella stanza se c’è qualche termostato alle pareti, nulla. Mi rassegno a convivere con il rumore del motore e torno nell’atrio elegante per scattare delle foto e per rilassarmi un po’, sedendomi finalmente in un ambiente asciutto a mangiare un boccone. Dopo qualche minuto il rumore si interrompe. Mistero.


Finita la mia pausa, inizio a salire la scalinata e trovo degli uffici, delle stanze buie e praticamente vuote. Si capisce che dovevano essere i locali dedicati alla dirigenza, sui pavimenti c’è il parquet quasi ovunque e nei muri ci sono delle belle nicchie con faretti incassati. Trovo un bagno finemente piastrellato e con una bellissima finestra rotonda. Sul piano non c’è altro di interessante; arrivo in fondo al corridoio dove una scala mi riporta alla reception. Decido di tenermi i piani alti per dopo, quindi prendo un altro corridoio, perpendicolare a quello precedente, che mi porta a degli uffici ampi e luminosi, una specie di open space diviso con pareti in legno e vetro. A terra c’è della moquette rossa, alle finestre veneziane, tende a pannelli e sulle pareti esterne una fila di armadi che immagino dovessero contenere numerosi faldoni di documenti. Torno indietro e trovo una porta che conduce ad una balconata esterna all’edificio, su cui si affacciano delle finestre con persiane, quasi fossero di un’abitazione. Trovo anche una porta, entro… ed è effettivamente un’abitazione! Le finestre dal lato opposto sono chiuse quindi la maggior parte delle stanze sono al buio; sul lato della balconata c’è un ampio locale con pavimento in parquet e una cucina seminuova. Lavello, piani di cottura, pensili, piastrelle… quasi pronta per essere usata. Tra i locali bui trovo la camera da letto, con materasso matrimoniale sul pavimento e il bagno, con una vasca da bagno seminuova. Se questa fabbrica non fosse qui ma altrove… sarebbe sicuramente già stata occupata e quindi devastata da anni. Per fortuna non è così! Esco dalla casa e salgo ancora lungo la scalinata “padronale”, arrivando in un altro ufficio dove lavorava qualcuno che senz’altro contava in azienda. Un grande locale, diviso solo da una colonna che forma due archi lavorati in stile semi-mediorientale, riquadri color crema sui muri con cornici bianche in rilievo, parquet e una bella scala curva interamente in legno che sale a un piano superiore. Sul pavimento il caos, cosparso di fogli di carta, raccoglitori, scatoloni, armadietti svuotati. Salgo la scala con cautela, ma grazie al fatto che in quest’ala non si è infiltrata acqua, è ancora sana. Arrivo in un grande locale che sembra essere un sottotetto, con porte finestre che danno su balconi da un lato e su una terrazza dall’altro. Il parapetto della scala non c’è più e il locale è completamente vuoto; si affaccia su di un altro locale simile ma più particolare. In un angolo c’è un curioso caminetto ogivale blu e bianco, con formine di animali in rilievo; metà parete è ricoperta da perline bianche e metà da perline blu. Una porta ad arco conduce in un sottotetto dove giacciono dei piani cottura. Davvero non riesco a immaginare che cosa facessero in questi locali, se non delle grandi grigliate in terrazza! Scendo nuovamente di un livello terminando di esplorare l’ultimo piano di questo edificio; altre stanze vuote, un altro bagno ben conservato e noto che sotto le infiltrazioni di acqua più gravi sono state posizionate delle vasche di plastica, ovviamente non sufficienti allo scopo.



Scendo ancora e trovo una sezione che prima non avevo visto, ovvero le sale riunioni e la sala ced. Nelle sale riunioni, purtroppo al buio quasi totale, ci sono pareti rivestite in legno e scaffali espositivi dove trovo vecchio materiale pubblicitario che andava esposto nei punti vendita, elenchi con i prezzi dei prodotti alimentari ancora in Lire, degli appunti scritti con calligrafia femminile. A terra si trovano campioni di etichette dei prodotti e una vaschetta sottovuoto di prosciutto crudo (penso) ancora chiusa! A parte uno strano residuo marroncino e il colore discutibile del prosciutto, all’interno non ci sono vermi o mosche. Pensando alle temperature estive e al fatto che quella vaschetta abbia almeno 6 anni, non si possono che fare i complimenti al confezionamento! Accanto alle sale riunioni c’è la sala ced. Qui riposano dei grossi server con lettori di nastri che non avevo mai visto. Lascio l’edificio prendendo un corridoio che parte dalla zona delle sale riunioni e che mi porta a un nuovo edificio. Le pareti sono piastrellate e vedo diverse isole con lavandini, sono le zone di preparazione dei pasti per i dipendenti; sono nella mensa. Uno stanzone enorme e vuoto, con piastrelle bianche ai muri, una cabina telefonica a muro e una montagna di piatti buttati sul pavimento, molti ancora integri. Proseguo nel dedalo di stanzoni e corridoi, alla ricerca di zone non ancora esplorate. Trovo dei laboratori chimici, con cappe per analisi e un angolo dove venivano conservati acidi per la disinfezione. In un’altra stanza anche una specie di autoclave/forno (?) con una porta simile a quella di una cassaforte.



Continuo l’esplorazione, guidato dall’istinto e dal senso dell’orientamento, aiutandomi con il GPS del telefono per capire in quale parte dello stabilimento mi trovi. Cammino su tetti, passerelle, attraverso reparti di stoccaggio, reparti di lavorazione carni come la cubettatura della pancetta, mortadella (con e senza pistacchio!) e stanze con binari al soffitto dove probabilmente venivano appese le bestie durante la macellazione. Più che gli interni, dove tutto è stato svuotato, mi affascina fotografare dalle finestre la vastità dello stabilimento, sembra di essere all’interno di una piccola città. È un labirinto che mi porta a ripassare in posti dove ero già stato in precedenza, causandomi anche attimi di smarrimento e – dopo qualche ora – anche un po’ di oppressione psicologica. A volte ho trovato delle porte chiuse che mi costringevano a tornare indietro e rifare altre strade o addirittura la stessa che mi aveva portato lì, a ritroso. Sempre con la massima attenzione, dato che ho visto anche scale interrompersi e finire nel vuoto poiché demolite.




Mi ritrovo infine ancora al livello più basso, dove mi imbatto negli enormi spogliatoi per gli operai, divisi tra uomini e donne; completamente al buio e corredati da decine di lavandini affiancati. Fotografo i tavoli della mensa accatastati e un alberello cresciuto sulla pavimentazione, teso verso la luce. Fotografo gli edifici dal basso all’alto, passo dietro un altro cancello carrabile, qui lo stabilimento confina direttamente con una palazzina che praticamente si affaccia sull’abbandono. Mi accorgo di essere tornato al punto di partenza, ho girato praticamente ovunque. Sono un po’ stanco e decido di dirigermi in direzione dell’uscita, per rifare un giretto in zona caldaie prima di terminare l’esplorazione. Dopo qualche scatto alla ciminiera e alle valvole, esco per qualche esterna dei primi edifici visitati e della vasca che un tempo depurava i liquami di scarto della produzione. Oggi è diventata una specie di stagno, con addirittura una papera che ci nuota nel mezzo. L’atmosfera è di pace e tranquillità, non fa freddo e passeggio con calma tra gli scheletri dei capannoni vuoti. Gironzolo ancora qualche minuto e cerco un diverso punto di uscita, più semplice di quello usato per entrare. In questa zona ci sono parecchi graffiti quindi immagino che i vandali siano entrati da questa parte. In effetti un comodo varco c’è, ma ci si ritrova in mezzo a una radura infestata da rovi e praticamente trasformata in acquitrino dalle abbondanti piogge dei giorni precedenti. Mi rassegno e riattraverso buona parte dell’area abbandonata per riguadagnare l’accesso al mondo “normale”. Cammino per strada, umido, sporco e stanco, ma colmo di gioia e soddisfazione.




Conclusioni
Un abbandono industriale insolito, essendo la produzione alimentare. E devo dire un luogo non troppo frequentato né dagli esploratori urbani né dagli youtuber dell’abbandono, forse perché non ci sono “maledizioni” o “tesori” all’interno da sbandierare nei loro titoli. Comunque, quello che più mi è piaciuto è stata la struttura della fabbrica, una specie di mini città nella città, molto divertente da esplorare per via delle innumerevoli scale, passerelle, passaggi tra i reparti… Un po’ deludente la parte dove c’era la divisione farmaceutica in quanto pesantemente vandalizzata e conciata male anche per via delle infiltrazioni e delle demolizioni. Fantastiche invece le caldaie giganti e i diversi ambienti del salumificio.
Le foto qui presenti risalgono a Novembre 2018.